LaRecherche.it

« indietro :: torna al testo senza commentare

Scrivi un commento al testo di Giorgio Mancinelli
SALERNO/LUCANIA/CILENTO La tradizione ’nascosta’ italiana.

- Se sei un utente registrato il tuo commento sarà subito visibile, basta che tu lo scriva dopo esserti autenticato.
- Se sei un utente non registrato riceverai una e-mail all'indirizzo che devi obbligatoriamente indicare nell'apposito campo sottostante, cliccando su un link apposito, presente all'interno della e-mail, dovrai richiedere/autorizzare la pubblicazione del commento; il quale sarà letto dalla Redazione e messo in pubblicazione solo se ritenuto pertinente, potranno passare alcuni giorni. Sarà inviato un avviso di pubblicazione all'e-mail del commentatore.
Il modo più veloce per commentare è quello di registrarsi e autenticarsi.
Gentili commentatori, è possibile impostare, dal pannello utente, al quale si accede tramite autenticazione, l'opzione di ricezione di una e-mail di avviso, all'indirizzo registrato, quando qualcuno commenta un testo anche da te commentato, tale servizio funziona solo se firmi i tuoi commenti con lo stesso nominativo con cui sei registrato: [ imposta ora ]. Questo messaggio appare se non sei autenticato, è possibile che tu abbia già impostato tale servizio: [ autenticati ]
SALERNO / LUCANIA / CILENTO: La tradizione ‘nascosta’ dell’Italia del Sud.
(Musica popolare del Salernitano, Cilento, Lucania e Vallo di Diano)

Nell’impossibilità di trattare la musica popolare della Campania come un insieme unico ed equipollente di suoni canti e balli tradizionali e, in ragione delle diversità che pure la compongono, ho trovato di particolare interesse l’investigazione etnomusicale avanzata dal Teatrogruppo di Salerno attivo negli anni 1970-78, per aver questo incluso nella sua ricerca sul territorio, strumenti, musica e canti di aree poco frequentate e lontane dalla tradizione partenopea, comprese nell’area salernitana e quella lucana dell’odierna Basilicata. Una ricerca ‘sul campo’ sfociata nella produzione artistica di due album (LP Albatros 8274 / 8373) rispettivamente del 1975 / 77, frutto di esperienze teatrali portate ‘in tour’ per il paese e che, per quanto paradossale possa sembrare, hanno contribuito a restituire e a far conoscere alcuni aspetti originali di quella musica popolare tipica delle aree rurali e contadine campane che pure lasciavano trasparire un rimando culturale diverso.
In realtà il Teatrogruppo, composto da una ventina di elementi, ha svolto ricerche in direzione della musica popolare del salernitano e dell’avellinese, nella regione più a meridione del Cilento e del Vallo di Diano, spostando l’attenzione sulla rielaborazione del materiale raccolto all’interno di un discorso sulla ‘nuova canzone’ che ha poi portato in forma di spettacolo nelle scuole e nelle sagre paesane. Da ricordare la presenza del gruppo al ‘Maggio popolare’ tenuto al CRI di Milano e curato da Roberto Leydi e Bruno Pianta, durante il quale ha tenuto un seminario sulle musiche popolari in Campania. Successivamente ha partecipato al ciclo di concerti ‘Musica popolare e folk revival’ tenuti alla Piccola Scala di Milano nella primavera del 1976. Il discorso del Teatrogruppo non si è limitato alla riproposta musicale filologicamente corretta, ma ha puntato anche al recupero della mimica, della gestualità, elementi assolutamente inscindibili dal contesto musicale e che sono sempre presenti nella espressività popolare.
Ancor più vanno ricordati gli spettacoli propriamente teatrali come la partecipazione al ‘Marat-Sade’ di Peter Weiss nel 1970/71; il rito ‘Collages’ (elaborazione collettiva 1972); ‘Leonzio e Lena’ (da Georg Büchner 1973/74); ‘Pulcinella e Fanfani’ intervento di strada con grandi pupazzi (da un canovaccio di Michele Gandin 1975); Intervento e ricerca sulla cultura e la teatralità popolari nella Campania meridionale (dal 1974), ed ovviamente altri dei quali si è in parte persa memoria. “Nello stesso tempo si sviluppava una opportunità d’incontro con l’Università di Salerno, in particolare con le Cattedre di Antropologia Culturale, Lettere e Storia del Teatro e dello Spettacolo che contribuì al perfezionare la maturazione del gruppo e ne limitava ai velleitarismi portati dal successo. L’asse portante del nostro lavoro di gruppo, mai più relegato e irrinunciabile, divenne la ricerca ‘sul campo’ come metodologia di confronto delle diverse aree geografiche affrontate, per la individuazione dello specifico ruolo svolto sul territorio. si trattava altresì di rompere l’isolamento della cultura che di andava indagando fornendole un nuovo tramite di comunicazione, stimolando nuovi momenti creativi e comunicativi sulla base drl vissuto quotidiano” (note Teatrogruppo).
Questo il vero motivo della scelta qui avanzata, in ragione della raggiunta consapevolezza di un’unica strada percorribile alfine di evitare di ricadere in una comunicazione settoriale o, peggio, nell’assenza di comunicazione del quotidiano con la tradizione, radicalizzandone l’effetto di negazione della tradizione stessa da parte delle nuove generazioni. Un’attività questa che può sembrare difficilmente configurabile nella sfera d’azione del teatro tout-court e nelle finalità tradizionali del folk-musik revival, ma che altresì è servita in quegli anni a restituire una identità geografica ad aree che sembravano non aver mai avuta, se non per averla recepita di riflesso dallatradizione popolare napoletana. Indubbiamente l’influenza partenopea in passato aveva oltrepassato di gran lunga quelle cosiddette ‘culture autoctone’ che agivano nel sotterraneo magico-liturgico e religioso delle aree meridionali meno esposte della regione; tuttavia sulla scia del ritrovato spirito del teatro: “..la ricerca sperimentale diveniva la dimensione essenziale e insostituibile di un’attività che non era quella del solo ricercatore specialistico, ma la struttura di una nuova ricerca pratica di gruppo per il cambiamento” (note Teatrogruppo).
Ma se tutto questo può sembrare in contrasto con la raffinata tecnologia della riproduzione discografica che fa giustizia della diversità e punta su un prodotto finito ‘omogeneo’ e il momento ‘unico’, all’epoca era l’unico modo, insieme al filmato su pellicola, che la tecnologia proponeva per fissare l’attimo e restituirlo all’ascoltatore nel modo migliore possibile, sebbene paradossalmente alquanto filologica, tuttavia necessaria per restituire memoria di ciò ch’era destinato alla memoria di pochi, quanto alla dimenticanza. “Nella realtà territoriale del gruppo quella del disco non è mai stata una priorità, ma ciò non poteva inquinare un discorso che aveva ben altri ritmi di svolgimento e più ampio campo di intervento. Piuttosto costituiva una sfida alle capacità di recupero ai limiti soggettivi e oggettivi del’azione collettiva, per allargare a nuove fasce l’ambito della proposta del gruppo, portatore di una esperienza maturata sul territorio, cosciente di svolgere un’attività politico-culturale che andava superando i confini di uno determinato campo d’azione, mai negando lo specifico per uno schematico quanto populistico convegno drammatizzato o cantato che fosse”.
Al Teatrogruppo di Salerno quindi si deve almeno un riconoscimento di tipo agiografico: l’aver proposto arie e canti di territori che sono quasi scomparsi dalle carte geografiche o, almeno, dalle considerazioni regionalistiche, e che invece vanno rivalutate quali aree geografiche autoctone, come il Cilento e la Lucania fino al Vallo di Diano. Grazie al Teatrogruppo di fatto ho scoperto alcuni strumenti arcaici o almeno introvabili come le nacchere cilentane, chitarra battente cilentana, flauto di canna; e tutta una serie di canti e ritmi a ballo, straordinarie ninne-nanne e pastorali alle ciaramelle che vale la pena qui di ricordare:

“I’ me ne voglio i’ a lu Celiento”
(canto con accompagnamento di tammora e chitarra)

I’ me ne voglio i’ a lu Celiento
me voglio i’ a piglià na celentana
nun me ne curo ca nu tene niente
basta ca tene le fresca funtana
fresca funtana famme ‘nu favore
fresca funtana si me lovuoi fare
quanno c’arriva chillo traditore
‘ntrovate l’acqua e nun lu fa lavare
Ma quanno arriva chillo caro ammore
Rischiara l’acqua e fancelo lavare.

È questo un canto molto diffuso nell’area culturale popolare in genere conosciuto come ‘a celentana’; la sua melodia originaria pur avendo subito le modificazioni causate dall’adattamento alle esigenze stilistiche ed espressive delle diverse zone di frequentazione come ad esempio nella maniera dell’agro sarnese-nocerino.

“Sera passai e tu bella durmivi”
(canto con accompagnamento di chitarra e castagnette)

Sera passai e tu bella durmivi
tutto lo tuo giardino io caminai
trovai ‘na pianta re melo gentili
e la crianza mia nun la tuccai
e quanto vale la crianza mia
tu ieri nuda e io ‘t’incoppulai
qual è l’occhio currivo che mi sengo
trovai lu fuoco e nun mi calentai.

Va da sé che la traduzione di questi canti è assolutamente insufficiente ad esprimere le assonanze, le onomatopee e, soprattutto, il gioco fonetico-semantico tra suono fisico degli strumenti, suono della parola e riferimenti sessuasi intrinseci del cantare ‘alla cilentana’. I temi presenti trattati sono di ogni genere (dal lavoro all’emigrazione, dal semplice saluto al corteggiamento amoroso) e svolti in diversi modelli ricchi di varianti, spesso dipendenti dalla caratterizzazione locale della provenienza del canto, distinto in: ‘d’amore’, ‘di sdegno’ e ‘di lontananza’, secondo una partizione utilizzata anche in altre aree. La melodia, più contratta nei paesi situati nell’interno e distesa in una maggiore cantabilità nella zona marina, cade sempre con melisni fissi. L’esecuzione può essere monodica, a voce singola o a voci alterne; o polivocale, con una voce ‘alta’ principale e una ‘bassa’ che ‘accorda’ sull’attacco della voce principale. Un solo fiato regge il canto di ogni verso e l’emissione è di testa e spesso a voce ‘lacerata’. Al canto, in funzione di accompagnamento, può aggiungersi l’uso di strumenti musicali (chitarra battente cilentana, organetto) con adeguamento delle voci al ‘tono’ dello strumento e l’aggiunta di una parte solo strumentale sul ritmo di tarantella come breve intermezzo tra distico e distico.

“Ninna nanna”
(per canto solo e chitarra)

Raccolta a Roscigno presso un’anziana contadina è qui riproposta una ninna-nanna di una bellezza che incanta per la sua semplicità e linearità della voce dell’unico componente femminile del Gruppo. Una ninna-nanna la cui funzione apotropaica anche se tipica di molte altre forse più conosciute, è particolarmente evidenziata dall’appello rassicurante e a volte ripetuto che, a seconda delle varianti, richiama alla Madonna o a Santa Maddalena e a Dio:

Ninna ninna nunnarella
lu lupo si magiavi la picurella
o picurella mia come facisti
quanno ‘mmocca a lu lupu ti viristi.
Ninna ninna nunnarella a la marina
‘stu figlio dorme e la mamma sua fatìa
ninna ninna nunnarella da la Spagna
‘stu figlio dorme e la mamma sua guadagna.
Ninna ninna nunnarella ‘stu figlio mio
me l’addorme la Madonna
ninna ninna nunnarella ‘stu figlio bello
me l’addorme santa Lena.
O santa Lena ti mi l’hai mannato
mannangi lu suonno ca l’aggio curcato
l’aggio curcato nu lietto re sciuri
diu li manni la bbona furtuna
l’aggiu curcato nu lietto di rosa
diu li manni tu bbono riposo.

Qualcuno leggendo si chiederà dove trovare la Lucania, o il Cilento, paradossalmente ‘inesistenti’ su gran parte delle carte geografiche, dopo l’avvenuto accorpamento di alcune regioni con altre o la cancellazione dai flussi di comunicazione di zone di territorio ritenute di scarso interesse turistico ed economico. Per trovare alcune notizie interessanti sono tornato a sfogliare la Treccani con davvero scarsi risultati, se non che si tratta di una sub-regione la cui popolazione è dedita alla pastorizia e all’agricolture. Tuttavia pur ho trovato qualcosa in una Guida d’Italia del Touring Club Italiano nientemeno che del 1928 che, ad esempio, annovera il Cilento come sub-regione compresa tra Battipaglia e Lagonegro per il Vallo di Lucania e Sapri; e ancora sulla carrozzabile costiera tra numerosi bivii come, ad esempio, quello presso Certola per Marina di Camerota fino a Celle di Bulgheria, ed altri, dove le strade s’intersecano fiancheggiate da grandi macchie di querce, di salici e pioppi, fra terreni incolti e siepi alte di lentischi, avanzi del bosco che un tempo ricopriva la pianura che si stende verso le alture del Cilento degradanti a mare col monte Tresino ai cui piedi si scorge Agròpoli affacciata sulla città vecchia.
Detta così sembrerebbe una terra ormai inabitata (era il 1928), quasi un paradiso terrestre in cui varrebbe la pena rifugiarsi per scappare dall’affollamento delle città, mentre invece va tenuto in conto che se “Cristo si è fermato a Eboli” una ragione pure dev’esserci stata. E quella ragione è che abbiamo cancellato tutto, le migliaia o quasi degli agglomerati urbani che vengono dopo, quelle ‘terre oltre’ dove pure è vissuta tanta popolazione e continua ad essere motivo d’orgoglio per le genti che in quelle terre continuano a nascere e a crescere maturando un attaccamento istintivo, certamente atavico, di tipo ancestrale. In verità nelle pagine successive si informa il turista (fai da te) su molte località, piccoli agglomerati di case adiacenti a piantagioni di tabacco; qualche rudere propaggine della Paestum d’epoca romana; fiumi di bassa portata d’acqua dai nomi curiosi: Alento, Lambro, Mingardo, Busento e, per lo più, massicci e picchi montuosi coperti di ginestre e cerri che danno forma a ‘valli’ i cui nomi trasportano la mente a una sorta di mitologia (fai da te) legata forse a condottieri d’epoca lontana, come ad esempio il Vallo di Diano, Roccagloriosa, Castellabate, Forra del Mingardo, Policastro, Atena Lucana, Stio, Laurino, Tegiano ecc. .

Ancor meno se parliamo di Lucania, la cui storia è legata alle numerose guerre combattute da Greci e Lucani, fra Lucani e Romani contro Pirro e Annibale seguite da grandi devastazioni del territorio. Questo in Treccani, seppure la Lucania è stata in passato (fino al XII sec.) un’antica regione italica successivamente compresa nella Calabria e infine annessa alla Basilicata. Che cosa rimane quindi di questa regione, un ‘amaro’ che viene regolarmente pubblicizzato in TV? Non può essere solo questo, ne vale la dignità di un popolo autoctono già famoso nell’antichità per la produzione artigianale della ceramica (sono famosi i vasi lucani) che si distinse per la sua qualità e il livello artistico. Poco, o quasi niente, rimane della conoscenza degli usi e costumi dei Lucani e dei Cilentani, letteralmente ignorati nella grande “Storia d’Italia” dell’editore Einaudi che, nei volumi dedicati a ‘I caratteri originali’ e ‘I documenti’ fa riferimento solo alle popolazioni della Basilicata e distrattamente alla Lucania in quanto agglomerato della prima e nulla sul Cilento. Dacché la Lucania è solo un amaro e il Cilento verosimilmente non esiste.

“Non si deve certo disconoscere che vaste aree contadine e pastorali del Sud sono rimaste sostanzialmente escluse dal contatto con le egemonie urbane e con le ‘città contadine’ ed altre ne abbiano subito solo marginalmente la pressione, ma è tuttavia ipotizzabile che il particolre ordinamento socio-economico del Sud abbia potuto mettere in movimento processi trasformativi della cultura tradizionale in grado di riprodursi attivamente lungo un arco temporale assai lungo, considerando la compresenza di altri elementi e il fatto che la tendenza a organizzare su base urbana la società contadina permane, nel Meridione, fino a noi. A questo elemento un altro può essersi congiunto nel determinare una particolare disposizione della comunicazione orale del Sud verso moduli che oggi ci appaiono assai prossimi a forme della ‘poesia culta’ della prima età della nostra storia letteraria”.(…)

“Se infati osserviamo come quei caratteri ‘culti’ paiono essere emergenti più in Sicilia che nelle altre regioni meridionali e come la connotazione più ‘profonda’ e ‘primitiva’ il nostro Sud la trova non già nei suoi territori più meridionali ma piuttosto in un’area, per lo più interna, che comprende Campania, Puglia, Lucania e Calabria settentrionale, possiamo immaginare che anche quel processo di tardiva rilatinizzazione, che i linguisti hanno rilevato in Sicilia e nella Calabria meridionale, possa aver agito nel senso di caratterizzare in modo più ‘moderno’ una parte almeno degli oggetti comunicativi. In una simile prospettiva si può allora ipotizzare un duplice indirizzo d’influenza (dalle città meridionali verso le campagne e dalla Sicilia verso il continente) sulla cultura ‘arcaica’ del nostro Sud, con le conseguenze abbastanza sorprendenti che oggi ci è dato di osservare” (Enciclopedia Einaudi 1973).

Aver sminuito la didattica scolastica elementare che dagli anni ’70 fino al 1985 prevedeva lo studio delle regioni italiane nei loro aspetti principali, cioè la conoscenza per quanto sommaria della composizione territoriale del suolo e sottosuolo, la flora e la fauna, l’industria, i prodotti tipici e la tavola, la lingua e la storia, nonché le sagre e le feste popolari cittadine, che pure avevano la loro importanza nel formare il carattere delle persone e il senso di appartenenza geografica al territorio, negli anni ha portato a escludere quei connotati di integrazione e di reciproco scambio che avrebbero portato all’unificazione dell’Italia come nazione. Non avendola sostituita con null’altro si è quindi giunti a disconoscere una identità che forse ci avrebbe salvati dall’essere fagocitati da culture esterne, mode e vezzi “..di stampo economico e di profitto, che andrebbero viste come funzionali al sistema sociale classista e quindi da rifiutarsi globalmente come un insieme di truffe ideologiche, (..) focalizzate in alcuni nodi cruciali dello ‘scontro’ tra la cultura dominante e la cultura del profitto, come appunto l’utilizzo del folklore come il fittizio riscatto sociale offerto dalle classi subalterne, nella prospettiva di un loro reale processo di liberazione. Temi questi che coinvolgono in prima persona chi ritiene che impegno culturale e impegno politico siano inscindibili e voglia operare lucidamente per la trasformazione della nostra attuale società, sullo sfruttamento e sulla menzogna. ” (L.M. Lombardi Satriani: 'Folklore e profitto' – Guaraldi 1973)

Non volendo qui rifare il verso al titolo di un noto film “Non si uccidono così anche i cavalli?”, ritengo autorevole quanto appena detto da L. M. Lombardi Satriani sulle possibile ‘tecniche di distruzione di una cultura’ cioè, di un vero e proprio etnocidio a discapito di alcune popolazioni che assistono alla negazione e spogliazione della propria espressione culturale. Quando, a fronte di una cultura sommersa pur comprensibilmente autentica che pur andrebbe finalizzata alla comprensione di un ‘vissuto’, anche se in certi casi inconsapevole, da tutti, in ragione d’una sua comprovata esistenza territoriale. Sommersa come lo è una certa religiosità commista di antiche superstizioni che sopravvivono nel sacro e nel divino che, ancora oggi sono parte integrante del quotidiano, sintomi di una tensione verso il sacro che il cristianesimo ha storicamente individuato e da sempre incanalato verso una religiosità autentica che si professi più autentica. Per quanto è altrettanto vero che questi agglomerati esistono e sono sempre esistiti, come bisogni non materiali che il godimento di sempre maggiori beni di consumo non riesce a soddisfare, anche se la cultura industriale li ha spinti ai margini, svalutati, soffocati, bollati dentro il loro stesso alone del ridicolo che verosimilmente li ha maturati.

Ma è tempo questo di restituire allo spirito quello spazio che gli concerne con un canto tradizionale raccolto presso un bracciante agricolo di S. Marzano. La discendenza da antichissimi riti di eliminazione, di morte e resurrezione, accentuate dall’uso melodico e una metrica insolita, fanno di questo canto un esempio di grande rilevanza dell’espressività popolare:

“Né Carnuvà, pecché si’ muorto”
(lamento rituale per la morte del Carnevale)

Né Carnuvà pecché si’ muorto
che nce vogliono ‘e sorde belle p’e schiattamuorte
che ggioia
t’aggio sentut’o o rummore r’re campanielle
mo se me vene ‘o cavallo ‘e puleciello
che ggioia
t’aggio sentut’o o rummore r’re carrettelle
mo se me venen’ ‘e femmene co’ ‘e canestrelle
che ggioia.

L’espressività dionisiaca del ritmo, caratteristica di alcune danze più antiche relative alle feste organizzate in onore della divinità pagana, può essere ricondotta alla funzione originaria di scansione musicale e coreutica all’interno del Carnevale sotto la denominazione generica della ‘tarantella’, accomunata ad altre danze ‘taranta spagnola’, ‘tarantulata pugliese’ ecc. in cui la particolare diffusione dell’organetto come strumento d’accompagnamento la fa da padrone. L’originalità del canto che segue sta nel fatto di elencare una serie di strumenti che variano da luogo a luogo e che ci permette di connotarne l’uso:

“Caro cumpare”
(canto sull’organetto, chitarra, tamburello, campanelli)

Caro cumpare che bai sunanno
vaco sunannu lu viulinu
comme lu suoni lu viulinu (uè cumpà)
minghillu-minghillu fa ‘u viulinu
don-don-don fa ‘u campanone
dan-dan-dan fa la campana
din-dindin fa ‘u campaniello
e dipidindà fa ‘u tamburiello

Caru cumpare che bai sunanno
vaco sunannu la rancascia
comme la suoni la rancascia (uè cumpà)
t’ ‘o ‘ncascio t’ ‘o ‘ncascio fa la rancascia
te ‘mponno te ‘mponno fa le zampogne
bai e bbene l’urganettu
nze-nze-nze fa la chitarra
minghillu-minghillu fa ‘u viulinu
don-don-don fa ‘u campanone
dan-dan-dan fa la campana
din-dindin fa ‘u campaniello
e dipidindà fa ‘u tamburiello

Caru cumpare che bai sunanno
vacu sunannu lu cuornu re caccia
comme lu suoni lu cuorno re caccia (né cumpà)
e musciu e bbuono t’ ‘o sbattu ‘mpaccia
ecco ca suona lu cuorno re caccia.

Ed ecco cosa ci dice il libro “Regioni d’Italia” della Basilicata (che ignora la divisione territoriale del Cilento), anche se ricorda l’antico nome probabilmente derivato dal latino ‘lucus’ che significa bosco, in memoria della foresta che infatti ricopriva l’intera area. Intanto che non costituisce una regione naturale più piccola dello stivale, ma che ha il privilegio di affacciarsi su due mari: per un breve tratto sul Tirreno nel golfo di Policastro (Cilento) dove le rive sono scoscese pur nella imprevedibile bellezza delle insenature selvagge; dall’altro sullo Ionio con Metaponto, importante sito archeologico con le quindici colonne rimaste del tempio di Giunone; e nel Golfo di Taranto, dove le rive sono piane. Quindi, superate le informazioni sul clima, la flora, la fauna e l’aspetto orografico del territorio, l’industria e l’artigianato, ci ricorda le principali città come Potenza, Matera, Avigliano, Melfi, Maratea, Piosticci, Tursi, Acerenza, Tricarico Montescaglioso con le rovine della Magna Grecia, così come Metaponto (dove insegnò Pitagora), e che sulle monete rinvenute (Lucania) appare il simbolo della spiga d’orzo, un tempo sacra a Cerere e simbolo della regione.

Nel libro pur si fa qulche sporadico accenno alla Lucania: “isolata fra i suoi monti, percorsa da profonde vallate di difficile accesso che in tempi antichissimi vide giungere gruppi di ‘coraggiosi’ che spingevano avanti le loro mandrie e trasportando gli utensili agricoli, e che quindi vi si stabilivano attratti dalla bellezza naturale del luogo. Mille anni prima di Cristo giunsero i Lucani; più tardi i Greci, i Goti, i Longobardi, i Bizantini che ne cambiarono il nome in Basilicata da ‘basilikos’ che in greco significa ‘funzionario imperiale’. Ancora oggi la più grande personalità lucana è il poeta latino Orazio Flacco (Venosa 65 a.C. – Roma 8 aC.) autore di Epodi e Odi, Satire ed Epistole appartenenti al genere lirico. Per saperne di più ho sfogliato quell’incredibile documento storico in due volumi che “Antica Madre” (AA.VV. Garzanti-Scheiwiller 1989) ha dedicato alle genti italiche: “Italia”: ‘Le genti della Basilicata antica’, e sui Lucani anche detti Enotri o Coni di origine arcade, forse discendenti da Sparta, già presenti attorno al 1800 a.C. quindi agli inizi dell’età del bronzo. Successivamente allo spostamento di gruppi etnici dalla Campania alla Sicilia a partire da un certo momento (e dunque da un certo mutamento culturale profondamente ellenizzato), in cui si identifica la fisionomia culturale delle rispettive popolazioni insediatesi nelle regioni meridionali, fra cui i Sanniti in Campania e i Lucani nell’area di Metaponto.

Strabone, geografo e storico greco vissuto attorno al 60 a.C. estende i confini della Lucania fra la costa del mar Tirreno e quella del mar di Sicilia, rispettivamente dal Silari fino al Lao e da Metaponto fino a Cerilli vicino Lao; e che arriverà fino alla conquista da parte dei romani che sconvolgerà il mondo lucano e porterà al completo abbandono di quasi tutte le sue forme insediative, con l’imposizione a territorio della ‘pax romana’. Il Vallo di Diano, percorso dal fiume Tanagro, un affluente del Sele che scorre parallelo alla Val d’Agri, tra i monti Alburni e Cilentani, costituisce una formidabile via naturale tra la piana di Eboli e il Lagonegrese. Qui l’area dell’insediamento più antico che si estende nella parte più occidentale della regione, è caratterizzata dalla presenza numerosi agglomerati abitativi dediti alla produzione di ceramica ‘a tenda’, riconducibile alle necropoli che si estendono ai piedi dell’abitato in cui sono numerose le tombe a incinerazione e il vestiario guerriero delle tombe maschili. Mentre nelle tombe femminili di maggior prestigio è eccentuato il carattere di fastosità presente nella vestizione della defunta, con armille a spirali nelle caviglie e in vita una cintura e un grande pendaglio, al di sotto del quale si cela un oggetto in bronzo particolarmente complesso, interpretato (Zancani Montuoro) come strumento musicale chiamato ‘calcofono’, anch’esso in bronzo fuso cesellato o lamina di filo di bronzo decorata ad incisione, datato attorno al VII-V sec. a.C. Lo strumento, detto anche ‘sistro apulo’, a sezione quadrangolare con estremità a volute forate ad intervalli regolari, costituito da due barrette sui fori in cui trovano alloggio alcune verghette in bronzo suonate tramite percussione. Tuttavia, pur nel lungo escursus sui ritrovamenti tombali, le pitture murali e i vasi in ceramica dipinti, poco o nulla si dice delle profonde trasformazioni avvenute nell’espressione del sentimento religioso. Ancor meno degli strumenti musicali utilizzati nei rituali funebri e nelle feste calendariali.

Per quanto concerne la grande permeabilità culturale che ormai accomuna tutto il mondo italico meridionale, corrisponde una sostanziale unificazione dello scenario culturale si conosce l’esistenza di qualche sporadico flauto di canna (Eboli), della ciaramella (Auletta), dell’aulos a due canne forate, delle nacchere cilentane d’importazione ellenistica; e la cosiddetta ‘tromba degli zingari’ detta anche ‘marranzano’ presente in tutta la Magna Grecia. Lo strumento importato probabilmente dall'Asia dalle popolazioni nomadi è costruito in metallo a forma di un piccolo ferro di cavallo, con al centro una linguetta pur’essa di metallo fissata ad una sola estremità al telaio. Viene fatto suonare tenendolo tra i denti e facendo vibrare con un dito la linguetta. La nota emessa da questo strumento può essere in parte modulata variando la forma della cavità orale attraverso il movimento delle guance e della lingua. Usata per particoli suoni d’accompagnamento lo strumento è anche usato negli intervalli musicali nel canto,come in questo brano per chitarra battente, tamburello e lo ‘scacciapensieri’ (marranzano).

“Occhi niurelli”
(serenata caratteristica del canto detto a ‘sospiro’ spesso presente fra verso e verso, che accentua il tono struggente del testo).

Occhi niurelli e palma d’auliva
ra vui nun me ne pozz’alluntanari
tutti me ricino chi ti lascio ira
si’ troppo bella nu lu pozzo fari
la gente chi nun voleno accunsintire
tutti i vulimmo ué aggiustari
siente bella chi è chi tt’ama
vai ru fierre vai eppure se tira
lu vostro patre eppure s’adda calari
cu li miei ingegni e cu li miei segreti
te l’aggia mette la fede ué a la mano
ramme la mano toia la mia è lesta
cient’anne camparrai sta vita nosta.

Sebbene la trascrizione dei testi non tiene conto delle riprese e ripetizioni pur numerosissime, per la sua complessità e la sua varietà lo sviluppo del canto avviene per nuclei musicali, separati da brevi pause, attraverso una peculiare successione per ripetizione-cumulazione di un verso dopo l’altro, per cui la ripetizione e l’accumulo si collegano al modo frequente di esecuzione del canto, ma spesso anche per bruschi scarti su altro tema o, con improvvisazioni occasionali, tipici del cantare popolare che prevede l’intervento dei presenti secondo la disposizione soggettiva dei cantanti. Tutto ciò spiega in parte la variabilità del contenuto delle sequenze e la successione ininterrotta, ad esempio della ‘tammurriata’ (canto e ballo alla tammorra) e/o della ‘pizzitata’ eseguita sulla chitarra battente. La nota informa che la ‘pizzitata’, termine che designa la tarantella utilizzata nel Salento per l’esorcismo coreutico-musicale nella terapia del ‘tarantismo’ conosciuta col nome di ‘pizzica’.
Allo stato della ricerca etnomusicologica si ignora se e quali connessioni e interrelazioni possano essersi sviluppate in passato fra ‘pizzica’ e ‘pizzitata’, la cui esecuzione tuttavia risente idealmente di un solo organico strumentale in accumulo di una serie di strumenti diffusi nell’area cilentana, sui quali una volta la ‘pizzitata’ veniva quasi certamente suonata durante le cerimonie pubbliche lucane: “..mescolanza di cattolicesimo popolare e di relitti di forme religiose antico-arcaico connessi con i diversi momenti che regolano il mondo agricolo. (…) Tra le feste del ciclo dell’anno ‘carnevale’ e ‘capodanno’ hanno in gran parte hanno conservato caratteristiche abbastanza integre ed autonome. (…) Tra queste ultime si pone il ‘giuco della falce’ che ha luogo (almeno fino a pochi anni fa) a San Giorgio Lucano, in provincia di Matera, e che appartiene a quelle feste di mietitura diffuse in gran parte dell’Europa. Elemento essenziale di questo ‘giuco’ è il mascheramento dell’atto del mietere con quello di una battuta di caccia a un caprone, personificato da un uomo ricoperto da una pelle d’animale. I contadini, fingendo la battuta, in effetti mietono il grano e stringono sempre più il cerchio intorno al capro fino a raggiungerlo e ad ucciderlo simbolicamente” (Annabella Rossi, “Basilicata” in “Santi, Streghe & Diavoli” a cura di L. M. Lombardi-Satriani, Sansoni Editore 1973.

Le cerimonie a carattere privato più diffuse sono quelle magiche, soprattutto la ‘fascinazione’, la pratica ancora presente e soprattutto la memoria culturale ancora viva, nonché l’importanza dell’aspetto etnomusicologico, dovrebbero essere di stimolo per gli operatori culturali e di quanti sono alla ricerca di stimoli musicali, che dal ‘vivo’ del passato, giungono fino a noi a insegnarci quel certo virtuosismo creativo mai dismesso. È questa una tematica studiata e considerata nelle sue linee dinamiche dall’etnologo Ernesto De Martino nel suo libro “Sud e Magia” che intendo riprendere in un capitolo successivo.

Pertanto ringrazio tutti i componenti del Teatrogruppo di Salerno per le note e la trascrizione dei testi; Gelsomini D’ambrosio per le illustrazioni di copertina e i disegni che accompagnano i booklet davvero preziosi che accompagnano i due LP; l’Editoriale Sciascia di Milano per la produzione del catalogo Albatros/Zodiaco; la Oedipos Edit. per il libro-album "Fantocci, principi e marchesi. Il Teatrogruppo di Salerno" (2011) , scritto e curato da Luciana Libero con un ottimo archivio di foto in bianco e nero che, a prescindere dalla valenza strettamente tecnico-artistica, restituiscono, fanno rivivere e ci lasciano ‘affascinati’ da uno dei periodi più ricchi e creativi della storia della nostra musica popolare.

(continua)




Nessun commento

Leggi l'informativa riguardo al trattamento dei dati personali
(D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196 e succ. mod.) »
Acconsento Non acconsento
Se ti autentichi il nominativo e la posta elettronica vengono inseriti in automatico.
Nominativo (obbligatorio):
Posta elettronica (obbligatoria):
Inserendo la tua posta elettronica verrà data la possibilità all'autore del testo commentato di risponderti.

Ogni commento ritenuto offensivo e, in ogni caso, lesivo della dignità dell'autore del testo commentato, a insindacabile giudizio de LaRecherche.it, sarà tolto dalla pubblicazione, senza l'obbligo di questa di darne comunicazione al commentatore. Gli autori possono richiedere che un commento venga rimosso, ma tale richiesta non implica la rimozione del commento, il quale potrà essere anche negativo ma non dovrà entrare nella sfera privata della vita dell'autore, commenti che usano parolacce in modo offensivo saranno tolti dalla pubblicazione. Il Moderatore de LaRecehrche.it controlla i commenti, ma essendo molti qualcuno può sfuggire, si richiede pertanto la collaborazione di tutti per una eventuale segnalazione (moderatore@larecherche.it).
Il tuo indirizzo Ip sarà memorizzato, in caso di utilizzo indebito di questo servizio potrà essere messo a disposizione dell'autorità giudiziaria.